Doveva aver superato da poco i 30 anni quando i superiori lo trasferirono a Tolentino. Perché? I biografi propongono varie risposte che restano però semplici ipotesi, a volte anche ingenue. Si pensa che fosse stato il Beato stesso a chiedere il trasferimento per sottrarsi ad una popolarità che cominciava a infastidirlo o addirittura per vivere nei luoghi santificati da S. Nicola per poterlo meglio studiare e imitare. Ma vale la pena chiedersi il perché? Probabilmente non se lo chiesero neanche i superiori e certo non se lo chiese il Beato Antonio che obbedì con amore e serenità .
Restò a Tolentino per circa dodici anni e vi esercitò l’ufficio di sacrestano. Era un ufficio umile, ma di responsabilità , che richiedeva una presenza quasi costante nella chiesa, capacità organizzative e amministrative e il saper tenere gli occhi aperti su problemi pratici. Ed è interessante questa scelta dei superiori, la cui fiducia mostra come il Beato, pur così amante della preghiera e delle cose spirituali, sapeva il fatto suo anche in quelle materiali e pratiche. Ed è bello immaginare quanto amore avrà messo nel suo ufficio non solo per il decoro della casa di Dio, ma anche per il culto del suo caro S. Nicola.
Intensificò l’apostolato nel confessionale e sembra che si sia dato anche alla predicazione. Allora la predicazione si identificava un po’ con la grande oratoria: occorreva un gran vocione, una personalità imponente, buona e vasta dottrina e capacità di convincere. Su questo substrato di qualità c’erano poi predicatori di ciance che pascevano di vento le pecorelle, e predicatori veri che miravano all’essenza delle cose, alla conversione e alla santificazione. Non c’è dubbio che quest’ultima fu la predicazione del Beato Antonio.
Bisogna osservare che è in questo periodo che Antonio si fa adulto nella santità . Non che prima non lo fosse abbastanza, ma ormai usciva, per così dire, dai fervori e dagli entusiasmi della giovinezza, e ne usciva con le ossa robuste. Questo non è da tutti: spesso gli slanci giovanili si dissolvono di fronte alle asprezze e alla monotonia della vita; perché possano resistere all’impatto e all’attrito degli anni più maturi non occorre molto calore, ma principi e convinzioni chiare e salde. Perché i santi si cuociono a fuoco lento.
In questa maturazione d’Antonio ebbe notevole influsso anche la comunità di Tolentino, comunità grande e importante, focolaio di studi e spiritualmente molto elevata. Vi viveva tra gli altri il Beato Giovanni da Tolentino che si spense attorno al 1393; il Beato Antonio lo ebbe a contatto e il suo comportamento gli fu di sprone non meno della presenza viva di S. Nicola.
Per gli impegni di sacrestano dovette ridurre quell’apostolato di contatti umani con i bisognosi che ad Amandola erano stati tanto proficui; ma accrebbe l’intensità della preghiera e delle penitenze, restando spesso in chiesa anche per tutta la notte. E come di S. Nicola, così anche di lui si racconta che il diavolo, incapace di vincerlo spiritualmente, lo tormentò anche materialmente, ora cercando di spaventarlo con urla e strani rumori, ora colpendolo e battendolo anche nel corpo.
Attorno al 1397 per ragioni ancora più sconosciute, se ragioni ci furono, fu trasferito nelle Puglie, e probabilmente a Bari. C’è chi afferma che vi andò come predicatore: sarebbe bello e allettante, ma non abbiamo trovato nessuna prova a sostegno di questa affermazione.
La Provincia agostiniana, chiamata allora del Regno della Puglia, era assai fiorente per numero di conventi e santità dei religiosi. Antonio prese contatto con le varie comunità della zona studiando la loro vita comunitaria e l’esperienza, come già quella di Tolentino, gli fu assai utile per l’avvenire.
E finalmente verso il 1400, all’età di 45 anni, fu nuovamente destinato al convento di Amandola.